Di alcuni giorni fa un convegno a Roma della Società italiana di psichiatria su "generi e generazioni"
Intervista alla psicoanalista Manuela Fraire. Un punto sull'elaborazione freudiana, sulla maternità e sulle nuove paternità di Roberta Ronconi
Inconsci di genere, psichismi generazionali, telescopage. Nei giorni scorsi, la Società italiana di psichiatria ha dedicato due giorni di riflessioni al tema "Generi e generazioni. Ordine e disordine delle identificazioni" (Roma, 1 e 2 dicembre). Termini complessi e linguaggi spesso sinuosi e oscuri, per dire cose che invece ci riguardano da vicino. Perché quando si parla di generi e di diversità, si dice di me donna, di te uomo, di lui gay, di lei lesbo, di noi queer e di tutto quello che chiunque altro può declinare nel mezzo. E quando si parla di generazioni si parla di tempo, di ciò che pesa sulle nostre spalle del passato, di ciò che peserà, sulle spalle dei prossimi a venire, della nostra esperienza presente.
La psicoanalisi non parla così, non sempre, non ancora, non tutta. Ma c'è chi, anche nelle maglie dell'ufficialità teorica freudiana, sa sciogliere qualche nodo ed avvicinarsi alla comunicazione, quella vera, quella fatta per dire e comprendere. E' il caso di Manuela Fraire, psicoanalista freudiana da oltre trent'anni, da sempre partecipante al pensiero e alla pratica del movimento femminista, che al convegno romano ha contribuito con una relazione su paternità e maternità, oltre le dipendenze biologiche. Sembra un tema accademico e invece parla di futuro, l'unico possibile ed auspicabile. Quello in cui le famiglie esploderanno per dare vita ad altro tipo di organizzazioni e legami socio-affettivi.
Ma partiamo dai temi annunciati dal convegno. Da queste generazioni e dai loro legami, che poi immaginiamo sia un modo complesso per porsi la domanda che oggi va per la maggiore: chi sono questi giovani che stiamo procreando, dove stanno andando, che vogliono, che pensano? La psicoanalisi è in grado di fornirci risposte in merito?
Sì, in questi tempi si sente molto parlare di giovani e della difficoltà di interpretarli. Se ne parla come se fossero un'unica indistinguibile marmellata, in una generalizzazione a mio avviso folle. Generalizzazione che la psicoanalisi non ha fatto mai, nella costante necessità di segnare la differenza tra padri, madri e figli. E' di Freud l'intuizione che la generazione che precede non può, in virtù dell'esperienza che ha, appropriarsi della generazione che segue. Così come la generazione che segue non può in alcun modo cancellare la strada da cui proviene. E le ultime acquisizioni analitiche ci dicono anche che le generazioni presenti possono essere influenzate persino da ciò che le generazioni passate hanno rimosso e relegato nell'inconscio.
Certo, questa dimensione psicoanalitica di gruppo sembra cozzare con la struttura individuale dell'inconscio. In che modo le due dimensioni si incontrano?
Intanto, ricordiamo che la dimensione plurale del soggetto analizzato è presente anche in Freud sin dai tempi di "Psicologia delle masse e analisi dell'io". E anche a questo convegno romano, una delle principali relazioni al centro della discussione è stata quella del francese Kaes che definisce gli analisti come "organizzatori metapsichici e metasociali". Come individui psichici nasciamo nella relazionalità e nella gruppalità. Ma allo stesso tempo è fondamentale tenere ferma la barra delle singolarità, altrimenti rischiamo concetti omologanti. E, come sappiamo, l'omologazione delle individualità porta ai regimi totalitari, di tutti i segni. La psicanalisi è riuscita a sopravvivere e a rimanere attuale proprio perché ha tenuto duro sulla necessità di guardare alle soggettività sia come entità singole che come relazione con la pluralità. Che sia famiglia, quartiere, città, nazione, mondo. E oggi, anche etnia.
La società freudiana riesce ad attualizzarsi in questo senso? E' elastica al cambiamento, fuori e dentro di sé?
Come il resto del mondo, anche la società freudiana, grazie al cielo, è fatta di moltissime individualità. Come si diceva prima, la dimensione sociale della psicoanalisi è talmente attuale che il relatore principale di questo convegno parla di analisti come operatori meta-sociali. Ma anche in questo campo ci sono dei rischi, come quelli di chiudere gli individui in "ghetti" etnici o generazionali. Per evitarli e trovare le strade più adatte alla psicoanalisi, ci vogliono semplicemente operatori con un buon grado di partecipazione desiderante e passionale verso ciò che succede nel mondo, anche fuori dallo studio.
Già, lo studio. A volte può somigliare a una prigione, almeno per il paziente. Ma è un luogo rischioso anche per l'analista?
Sì, nel momento in cui si trasforma in un ambiente troppo protetto, quindi claustrofobico.
Vorrei farti una domanda generica, per riuscire a capire qual è la condizione della ricerca in questo momento. Qual è lo stato di salute della psicoanalisi?
La psicoanalisi non esiste, esistono "le" psicoanalisi, anche dentro la scuola freudiana. Uniformare non farebbe giustizia. Lo stato di salute è quello di una famiglia che si è molto allargata e che ha fatto anche matrimoni meticci. E quindi ha necessariamente integrato al proprio interno aspetti della vita del pensiero ed esistenziali che Freud non poteva conoscere. Semplicemente perché alla sua epoca non esistevano.
Il movimento femminista, tanto per fare un esempio. Come quell'esperienza ha contaminato la psicoanalisi, in pensiero e pratica?
Il lavoro che ho portato a questo convegno parla del femminismo inteso anche come operatore meta-sociale, nel senso che ha dato struttura a un immaginario sulla donna distantissimo da quello vivo all'epoca di Freud. Lui aveva intuito di appartenere a un mondo in cui le donne potevano parlare solo tramite l'isteria, ma lì si era fermato. Deve arrivare l'emancipazione femminile, la centralità della madre elaborata da Melanie Klein, la nascita del pensiero della differenza e delle donne che elaborano per sé un valore simbolico a tutto campo, per operare un'inversione direi epocale.
Cosa ha rivoluzionato nella psicoanalisi, il femminismo?
La necessità di pensare alla differenza dei sessi non come a una diseguaglianza, ma ad una diversità. Anche la psicoanalisi ha a lungo avvalorato questa seconda ipotesi, sostenendo l'idea di un femminino tutto inscritto nel binario della passività, dell'accoglienza. Curioso, dico io, che questo immaginario si sia andato strutturando proprio alle soglie dell'esplosione del capitalismo, con le donne ritenute più adatte alla riproduzione che non alla produzione...Non sarà un caso, no?
Sta inserendo nel discorso una dimensione politico-economica che forse non appartiene a tutta l'elaborazione psicoanalitica attuale....
E infatti secondo me il motivo dell'inattualità di certi aspetti della grande teoria psicanalitica sul femminile andrebbero ricercati non tanto all'interno della teoria stessa, quanto nel contesto della storia del capitalismo borghese. Se non si raggiunge questa dimensione, continueremo a litigare tra scuole senza capire che c'è un dialogo continuo tra la psicanalisi e i tempi in cui la psicoanalisi vive che la modificano e terremotano da dentro.
Quali sono le conclusioni che ha tratto, nel suo intervento?
Che siamo di fronte alla modificazione di due modelli fondamentali che organizzano la nostra società: la famiglia e il materno. Il posto che queste due entità - così strettamente collegate tra loro - stanno oggi occupando nella vita delle persone non è più quello di un tempo. Per capire di cosa parlo, bisognerebbe rileggersi Derrida e quel magnifico libro-intervista rilasciato alla psicoanalista Elisabeth Roudinescu poco prima di morire, dal titolo: "Quale domani". Nel capitolo "Famiglie disordinate" Derrida spiega come finché ci sarà una rete umana che si organizza intorno alla procreazione (quindi alla riproduzione della specie) chi riproduce sarà sempre meno importante. L'importante è che si crei un legame di trasmissione.
Un modo per dire che la famiglia sta, finalmente, esplodendo, almeno per come la conosciamo oggi?
Esistono già le famiglie monogenitoriali (che hanno spesso ancora la madre al centro), ma secondo le mie osservazioni presto sarà il padre la figura centrale. Un discorso sul quale sto lavorando molto, quello di una nuova paternità che nasce da una sensibilità maschile che ancora non abbiamo sufficientemente analizzato. Gli uomini non come supplenti delle madri, ma con un originale contatto con la primissima infanzia dei propri bambini. Ma questo è un altro discorso, che spero avremo modo di affrontare presto.
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